
“La guerra è dappertutto…la terra è tutta un lutto” cantava Fabrizio De André nel suo celebre brano “Girotondo” che divenne uno dei principali manifesti di condanna alla violenza dei conflitti armati. Una strofa che nel suo significato di denuncia verso una realtà bellica onnipresente che trascina l’umanità in una perversa spirale di orrori e distruzione, senza distinzione tra grandi e piccini, rimane attuale anche oggi. Secondo i dati forniti dall’ONG Armed conflict location & event data project (Acled), tante sono le guerre ancora in corso nel mondo, di cui l’ultima registrata è quella che vede coinvolte la Russia e l’Ucraina. Nel 2022 si contano circa cinquantanove conflitti attivi, dall’Afghanistan al Myanmar, dalla Palestina alla Siria, dalla Libia all’Etiopia. Tra le principali crisi civili scoppiate negli ultimi anni in diversi Stati del Medio Oriente, la guerra nello Yemen è uno di quei casi che ha gradualmente assunto una certa attenzione a livello regionale e internazionale, tanto che nel 2017 l’ONU l’ha definita la peggiore crisi umanitaria del mondo.
Unico Stato della Penisola araba con una forma di governo repubblicana, lo Yemen è una delle economie più povere al mondo e dipende quasi totalmente da aiuti esterni. La sua storia più recente si intreccia con le tensioni bilaterali della coesistenza competitiva e della successiva distensione flessibile nel quadro più ampio della Guerra Fredda. In seguito alla partenza dei coloni britannici e all’ottenimento dell’indipendenza nel 1967, nacque la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (più conosciuta come Yemen del Sud), uno Stato satellite dell’Unione Sovietica, contrapposta alla Repubblica Araba dello Yemen (o Yemen del Nord). I due Stati, ideologicamente ed economicamente avversi, rimasero in aperta ostilità fino al 1990, anno dell’unificazione nell’attuale Repubblica dello Yemen, sotto la guida del Presidente Ali Abdullah Saleh.
Nel 2015 scoppiò una sanguinosa guerra civile conseguente una crisi di successione politica. La miccia che diede fuoco alle polveri fu l’ondata delle primavere arabe che tra il 2011 e il 2012 coinvolsero diversi paesi nelle regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. Nel clima di agitazioni e proteste che ne conseguirono Saleh cedette il potere al suo vice, Abd Rabbo Mansur Hadi. Nel 2014, complice la forte instabilità del nuovo regime politico e la dilagante crisi economica, la capitale Sanaa fu invasa dai ribelli appartenenti al gruppo musulmano sciita Huthi, che rovesciarono il Governo di Hadi e lanciarono un’operazione militare per conquistare la parte meridionale del paese comprendente Aden, ex capitale dello Yemen del Sud. Da allora, gli scontri tra le forze governative yemenite e le truppe degli Huthi si sono intensificate tanto da coinvolgere una coalizione internazionale composta dall’Arabia Saudita, diversi Stati arabi sunniti e gli Stati Uniti a sostegno di Hadi e del governo centrale. Mentre Sanaa e gran parte del territorio settentrionale è ancora sotto il controllo del gruppo sciita (secondo Washington appoggiato dalla Repubblica Islamica dell’Iran), la coalizione militare guidata da Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita, ha annunciato nel 2020 la conclusione degli scontri contro la fazione del Consiglio di transizione del sud (Cts), un movimento separatista appoggiato dagli Emirati Arabi Uniti che nel 1994 avevano dichiarato la secessione della regione meridionale, occupata de facto dal governo centrale in esilio. Ad aprile 2022, Hadi ha ufficializzato l’insediamento di un Consiglio di direzione presidenziale guidato dall’ex ministro Rashad al Alimi nell’ex capitale meridionale di Aden. Nonostante la tregua nella città portuale, la situazione generale rimane ancora instabile e le divisioni tra le varie milizie interne non fanno che alimentare la lotta per il potere.
Come anticipato all’inizio, il conflitto civile yemenita ha innescato una delle più serie crisi umanitarie dell’ultimo secolo. Secondo un rapporto dell’organizzazione nazionale Mwatana, tra il 2016 e il 2020 si sono registrati 1605 casi di detenzioni arbitrarie, 770 casi di sparizione forzata e 344 casi di tortura da parte degli Huthi, della coalizione internazionale e delle altre fazioni in campo. Il numero di profughi è aumentato vertiginosamente nel corso degli anni (dal 2015 i rifugiati sono aumentati di due milioni nella sola Aden). Oltre alla diffusione della pandemia di Covid-19, che ha aumentato le ostilità dei locali nei confronti dei migranti africani, il paese sta affrontando anche la più grande epidemia di colera al mondo, senza dimenticare i milioni di casi di denutrizione e malattie varie contro cui sistema sanitario, in ginocchio a causa della guerra, non è in grado di offrire un’adeguata assistenza. Per molti l’entrata in vigore della tregua ad aprile e il placarsi delle rivolte separatiste a sud del paese avrebbe dovuto rappresentare un piccolo passo verso una potenziale riconciliazione tra le diverse fazioni perennemente in lotta per il riconoscimento di una propria legittimità politica e religiosa. Ma a quanto pare ciò non sarà ancora possibile e il grande girotondo, sempre citando l’artista De André, di chi vive di persona il dramma della guerra continua incessantemente a compiere il proprio moto.