ECONOMIA

La felicità: costi e paradossi

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Woody Allen diceva: “Se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la povertà”.

È nella natura umana ricercare in modo costante e duraturo la felicità, pur non sapendo realmente cosa sia e cosa comporti trovarla e mantenerla. La ricerca stessa di qualcosa di così effimero spinge l’essere umano ad interrogarsi: cosa succede una volta che si è raggiunta? Saremo in grado di riconoscerla? Quanto incidono, sul raggiungimento di questo obiettivo, la vita frenetica e i sovra-stimoli che subiamo ogni giorno? La felicità si valuta sempre da un punto di vista personale e forse per questo capita di non saperla riconoscere, ma la felicità dipende da un numero infinito di fattori esterni, non controllabili, e per questo, da anni, scienziati ed economisti la studiano.  

La scienza ha cercato di dare un valore economico alla felicità e i risultati di questi studi affermano che il livello di benessere soggettivo cresce al crescere del benessere economico, con il sottotesto che un reddito alto non assicura la felicità, ma rende sicuramente la vita più soddisfacente.

Uno studio, che arriva da Jean Twenge docente di Psicologia presso la San Diego State University, riesce a dimostrare una connessione profonda tra il denaro e il benessere grazie all’analisi su 40mila adulti statunitensi, di 30 anni o più, per un periodo che va dal 1972 al 2016. Secondo Twenge, la pandemia potrebbe rendere il divario di classe ancora più evidente dal punto di vista non solo economico ma anche psicologico.

Un altro studio è stato condotto da due professori della Princeton University, Angus Deaton e Daniel Kahneman (Premio Nobel per l’economia nel 2002) che hanno analizzato la soglia oltre la quale, anche se il reddito cresce, la percezione di realizzazione e la relativa felicità si arrestano. Questa soglia economia è di circa 60mila € annui. Possiamo vedere chiaramente una parabola che si forma partendo da un reddito basso e dal relativo benessere commisurato, che sale via via, fino al punto in cui si ferma e discende.

Questa parabola è esattamente quella descritta negli anni ‘70 da Richard Easterlin (professore di economia all’Università della California meridionale) nel suo paradosso della felicità (Easterlin Paradox). Quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità dell’individuo aumenta ma fino a un certo punto dopo il quale comincia a diminuire, seguendo una curva a forma di parabola con concavità verso il basso. Superata questa soglia la correlazione positiva tra Pil e felicità tende a svanire.

Quando confrontiamo il Pil pro-capite di vari paesi, notiamo che, in quelli con un valore più elevato, la percentuale di cittadini che si definisce “abbastanza” o “molto felice” è più elevata.

OECD Better Life Index è uno strumento interattivo che consente di rilevare la performance dei vari Paesi a seconda dell’importanza che i cittadini attribuiscono agli 11 fattori, identificati dall’OCSE come essenziali: abitazione, reddito, occupazione, relazioni sociali, istruzione, ambiente, impegno civile, salute, soddisfazione, sicurezza, equilibrio lavoro-vita.

In Italia, da qualche anno, l’Istat affianca alla rilevazione del valore del Pil, quella del Bes (benessere equo e sostenibile), integrando la tradizionale valutazione della crescita economica basata sulla ricchezza con i diritti, l’ambiente, la salute, etc…

Già a fine ‘800, a Francis Ysidro Edgeworth era venuta l’idea di realizzare un dispositivo dedicato alla registrazione della felicità, l’edonimetro, che avrebbe dovuto misurare le variazioni istantanee della soddisfazione creando un grafico. Più recentemente è stato realizzato il progetto “Mappiness” che raccoglie dati, tramite una app, sul benessere dei cittadini inglesi. Questi dati sono funzionali alla realizzazione di politiche finalizzate al benessere della collettività.

Uno studio molto interessante, fatto sempre sulla base di dati puntuali, arriva da due economisti: Alex Bryson e George MacKerron (intitolato “Are you happy when you work?”) che misurano le valutazioni soggettive inerenti al lavoro, scoprendo che lavorare non ci piace, ma se non lo facciamo il nostro livello di benessere crolla. Il lavoro è una fonte di disunità, che si mitiga solo se si hanno buoni rapporti di socializzazione (come stare bene con i colleghi, poter ascoltare musica, etc). Chi lavora ha livelli di benessere significativamente superiori di chi è disoccupato, ma se viene improvvisamente licenziato la percezione di infelicità è due volte e mezzo superiore di quella dei disoccupati. Questo sembra voler dire che nel lavoro troviamo un’utilità intrinseca che supera di molto quella associata al solo guadagno monetario. La motivazione potrebbe risiedere nei numerosi lavori, sbagliati o de-umanizzati, svolti in passato. Perciò, non sempre ciò che ci piace ci rende felici e non sempre ciò che ci “pesa”, ci rende infelici.

Possiamo concludere dicendo che, la politica economica portata avanti dai singoli Governi, influenza la qualità della vita dei cittadini e la loro percezione della felicità. Far crescere il Pil investendo in sistemi di sicurezza e difesa è molto diverso da farlo crescere investendo in misure di supporto per le minoranze o l’istruzione o il welfare. Gli studi scaturiti dal nuovo indicatore del benessere, che analizza 19 stati europei (basato su fattori individuali come: le competenze, la stabilità emotiva, il coinvolgimento, l’ottimismo, le relazioni, l’autostima e la resilienza), dimostrano come il primo tipo di investimento non rappresenti un miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, mentre, a parità di risorse, il secondo tipo di investimento, a favore dei redditi più bassi, avrà un ritorno in termini di benessere nettamente superiore.

I policymakers dovrebbero tenerne conto.

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