ECONOMIA

Conseguenze della deforestazione dell’Amazzonia e impatto sul cambiamento climatico

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Con una superficie complessiva di 6,7 milioni di km² e un’estensione territoriale che copre circa nove Stati dell’America meridionale (la porzione più vasta si trova in Brasile), l’Amazzonia è la foresta pluviale più grande del nostro pianeta e ospita una delle biodiversità più ricche e affascinanti al mondo. Oltre a rappresentare l’habitat naturale di molte specie animali, tra i quali il delfino del Rio delle Amazzoni, il giaguaro e il boa constrictor, la foresta è anche uno dei polmoni verdi più importanti ed essenziali per la vita sulla Terra. Nel 2000 è stata dichiarata Patrimonio dell’UNESCO, specialmente per il suo ruolo fondamentale nella lotta contro il cambiamento climatico. Grazie ai suoi alberi, infatti, la foresta sarebbe in grado di regolare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica nell’atmosfera, nonché il clima delle regioni circostanti, assorbendo dai 150 ai 200 miliardi di tonnellate di carbonio e salvaguardando la biodiversità. Tuttavia, questo equilibrio risulta oggi compromesso dai danni ambientali provocati dalla mano dell’uomo che finiscono non solo per stravolgere l’ecosistema di un autentico paradiso terrestre, ma anche a mettere in pericolo la realizzazione di un’economia sostenibile per le generazioni future.

Incendi, disboscamenti e allevamenti intensivi sono tra le principali cause che alimentano l’allarme da parte della comunità internazionale sulla preservazione del patrimonio naturale dell’Amazzonia. Tra queste, la deforestazione è probabilmente quella che più ha causato danni ambientali irreversibili. Ogni anno perdiamo un pezzo di Amazzonia, afferma l’Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais (INPE) del Brasile: le immagini satellitari evidenziano un tasso di deforestazione in crescita dalla fine degli anni ottanta, con rimozioni della copertura forestale superiori ai 7.000 km² dal 2015 al 2018. Nel 2019 ad attirare l’attenzione dei media internazionali sono stati gli incendi: in particolare, il 20 agosto i satelliti della NASA hanno tracciato circa 74.155 incendi nell’area amazzonica, specialmente nella regione centrale dello Stato brasiliano (il dato peggiore dal 2010). Nel corso degli ultimi due anni, l’INPE ha registrato ulteriori dati allarmanti. Tra agosto 2020 e luglio 2021 il disboscamento ha riguardato un’area geografica di 13.253 km² (paragonabile quasi alla regione italiana della Campania), con un aumento del 21,97% del tasso di deforestazione rispetto al biennio 2019-2020, quando aveva raggiunto i 10.851 km².

Il fenomeno della deforestazione e degli incendi si è intensificato principalmente per questioni legate alla scarsa produttività e alla necessità di ricorrere allo sfruttamento intensivo di ampie zone boschive dell’Amazzonia. Nonostante tale pratica si sia ridotta del 70% all’inizio degli anni 2000, come risultato dei maggiori controlli di polizia e delle campagne ambientalistiche, i picchi di deforestazione non sono mai scomparsi del tutto, arrivando a sfiorare i 28.000 km² tra il 1987 e il 2017. La deforestazione illegale è aumentata di nuovo a partire dal 2015 per soddisfare la domanda globale di prodotti alimentari come l’olio di palma, carne bovina e soia. Secondo l’ONG Greenpeace, il tasso di deforestazione è aumentato sensibilmente dal 2019, quando Bolsonaro divenne presidente del Brasile. In un rapporto pubblicato dalla stessa organizzazione intitolato Dangerous man, dangerous deals, l’agenda politica del capo di Stato brasiliano ha fatto enormi passi indietro in tema di protezione ambientale, contribuendo a peggiorare le condizioni già precarie dell’ecosistema naturale dell’Amazzonia e ad aumentare le emissioni di gas serra a livello nazionale del 9,5%. 

Sono esattamente i danni ambientali a destare preoccupazione da parte dell’opinione pubblica e internazionale. L’aumento della deforestazione e la conseguente pratica illegale di appiccare incendi nella foresta per favorire l’espansione dell’agricoltura industriale rischia di minare lo sforzo da parte delle associazioni ambientalistiche ed esponenti della società civile locale di garantire una transizione guidata verso un’economia più sostenibile e a emissione zero di CO2. In occasione degli incontri della XXVI Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) a Glasgow il 2 novembre 2021, il Brasile ha firmato insieme ad altri 27 Stati un accordo che impegna le parti contraenti a fermare la deforestazione e a ridurre le emissioni di carbonio del 50% entro il 2030. Questi obiettivi sono stati definiti dal Ministro degli Esteri brasiliano, Carlos França, un’ambizione seria e concreta volta a favorire un’economia verde e una decarbonizzaizone di tutti i settori di produzione. Un’ambizione che, però, non sembra ritrovare un effettivo riscontro nella prassi attuale dell’amministrazione brasiliana. A gennaio 2022 l’INPE ha comunicato che la deforestazione dell’Amazzonia ha raggiunto il tasso più alto rispetto all’inizio del 2015: 430 km² di foresta sono stati abbattuti, pari a circa due volte e mezzo la città di Milano. Insomma, se il Brasile intende davvero impegnarsi per realizzare gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, saranno necessarie riforme strutturali più efficaci e una maggiore sensibilità sulla protezione ambientale da parte dell’esecutivo.

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