GEOPOLITICA

Corsa agli armamenti nucleari nella regione dell’Indo-Pacifico e i danni all’ecosistema durante la Guerra Fredda.

Spread the love

La regione dell’Indo-Pacifico è uno degli scenari geopolitici più interessati dalla continua sovrapposizione di interessi politici, economici e militari  e rappresenta il principale terreno di alleanze regionali e rivalità internazionali che vedono coinvolte le due superpotenze globali. L’attuale clima di rivalità che caratterizza i rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Cina, in una perenne contesa per il primato mondiale in termini di produzione economica e potenza militare, ha raggiunto il suo climax il 15 settembre 2021 con l’annuncio dell’accordo Aukus tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti. L’alleanza trilaterale si prefigura come un partenariato per la sicurezza militare e cibernetica nell’Indo-Pacifico e prevede, tra le varie clausole dell’accordo, una stretta collaborazione tra Washington, Londra e Canberra nel settore delle tecnologie di difesa navali.

La decisione da parte del Regno Unito e degli Stati Uniti di dotare l’Australia di sottomarini a propulsione nucleare è stata il pomo della discordia che ha suscitato polemiche e dure prese di posizione da parte di alleati europei e asiatici. In primis la Francia, per cui la nascita dell’accordo Aukus ha comportato la cancellazione di un contratto del valore di 56 miliardi di euro firmato con l’Australia nel 2016 per la fornitura a Canberra di 12 sottomarini militari,  ha definito la partnership transpacifica una “pugnalata alle spalle”(per citare le parole del Ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian). L’esclusione dallo scacchiere dell’Indo-Pacifico potrebbe significare per Parigi un’occasione persa di poter rivestire un ruolo strategico in una vastissima area globale costituita dai territori dell’ex Impero coloniale e che racchiude il 93% della zona economica esclusiva francese. Da parte sua, la Cina ha espresso il proprio disappunto verso il partenariato dei tre Stati, accusandoli di aver preso una decisione irresponsabile che danneggerà la pace e la stabilità nella regione e apostrofando Washington di aver favorito un casus belli per il risorgere di un clima da Guerra Fredda.

Per quanto non dichiarato esplicitamente dai firmatari dell’accordo, appare evidente che uno degli obiettivi principali del partenariato riguardi proprio il contenimento dell’influenza cinese nell’Indo-Pacifico. Al centro delle operazioni militari statunitensi vi è un maggior controllo da parte della marina militare che l’Australia, grazie alla fornitura dei sottomarini nucleari, potrebbe garantire nel Mare Cinese Meridionale, una zona percorsa da numerose rotte commerciali e strategica per le mire espansionistiche di Pechino. La mossa di Washington ha inoltre ottenuto l’appoggio dei suoi alleati asiatici al centro del braccio di ferro con la Cina riguardo a dispute territoriali ancora attive che vedono protagonisti il Giappone, Taiwan, le Filippine e l’India. Nel caso di Taiwan, in particolare, l’intesa concertata tra Stati Uniti e Australia potrebbe fungere da deterrente alle pretese del governo centrale della Repubblica Popolare Cinese di riunificare alla madrepatria la piccola isola al largo dello Stretto di Formosa. Lo stesso Presidente degli Stati Uniti Joe Biden sembra sottolineare la necessità di rafforzare la presenza occidentale e americana nella regione dell’Indo-Pacifico per preservarne la  circolazione e la stabilità denunciando l’aggressività della Cina sia sul piano economico, con riferimento al progetto della Nuova Via della Seta, sia nell’ambito militare con le rivendicazioni delle isole nel Mare Cinese Meridionale e le minacce a Taiwan.

Uno dei nodi dolenti sollevati dal portavoce del Ministero degli Affari Esteri cinese Zhao Lijian, ma in larga  parte condiviso dalla comunità internazionale, è il timore che l’alleanza volta a contrastare l’influenza del Dragone nella regione possa intensificare la corsa agli armamenti e compromettere gli sforzi internazionali di non proliferazione nucleare. Il trasferimento di know-how e la tecnologia necessaria alla costruzione di sottomarini a propulsione nucleare consentirebbe all’Australia di diventare la settima nazione al mondo in possesso di tale arma di detenzione insieme agli Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito, Cina e India. Un’altra questione che rimane aperta e che alimenta le preoccupazioni internazionali sul nuovo arsenale riguarda la materia prima necessaria alla propulsione, ovvero l’uranio arricchito al livello usato per le bombe atomiche. Sebbene gli Stati Uniti abbiano assicurato che i sottomarini di cui si doterà l’Australia saranno equipaggiati con armi convenzionali e non con arsenale nucleare, in virtù della partecipazione del paese al Trattato di Non Proliferazione Nucleare, le capacità offensive della flotta australiana saranno maggiori rispetto a prima del partenariato.

Sui rischi che l’utilizzo delle tecnologie atomiche a fini bellici potrebbero avere sull’ambiente nel caso il clima geopolitico nell’Indo-Pacifico dovesse assumere i connotati di una seconda guerra fredda “a somma zero” non vi sono al momento riflessioni condivise dai principali attori dell’arena internazionale. Ovviamente, un regime apocalittico di completa deregolamentazione dell’attuale sistema costruito intorno alla limitazione della proliferazione nucleare, e quindi all’uso incondizionato di arsenali nucleari da parte di Stati in possesso di tale arma di deterrenza, sarebbe poco auspicabile. Ciò che è certo è che la regione è stata fortemente interessata dagli esperimenti condotti dagli Stati Uniti tra il 1946 e il 1962, quando il principale polo del contrasto politico, ideologico e militare tra Occidente e Oriente era l’Unione Sovietica. Di quei test rimangono segni evidenti in diverse aree dell’Oceano Pacifico e a distanza di anni minacciano di compromettere la biodiversità dell’intera zona geografica e la sicurezza delle popolazioni locali. La questione è infatti tornata alla ribalta all’inizio di maggio 2019 quando il Presidente delle Isole Marshall, Hilda Heine, ha rivolto un appello al Segretario delle Nazioni Unite António Guterres per affrontare il problema della ricaduta radioattiva nelle acque territoriali che hanno provocato danni non solo all’ecosistema dell’isola, ma anche alla salute degli abitanti. La causa principale dell’aumento di radioattività sarebbe riconducibile al cedimento di una gigantesca cupola di cemento edificata sull’Isola Runit che gli Stati Uniti usarono come discarica di materiale radioattivo conseguente a degli esperimenti nucleari condotti sulle isole Bikini e Rongelap nell’Oceano Pacifico. Di queste problematiche relative all’impegno della comunità internazionale di salvaguardare gli habitat naturali la COP26 dovrebbe discuterne nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici al fine di affrontare anche questo drammatico aspetto della sfida ambientale.

Potrebbe piacerti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *