ARTE&CULTURA

“Tra il marzo e il giugno della vita”- racconti di gioventù.

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Tra timori e cambiamenti, improvvisi entusiasmi, esperienze spaesanti e profondità tutte da sondare. Si parla tanto di giovani e di adolescenza. Forse il problema è proprio questo: si parla troppo dei giovani, ma troppo poco con loro. Oggi, per la settimana internazionale della gioventù proveremo infatti a raccontare l’adolescenza tramite i canali espressivi della musica e dell’arte. Gli anni dell’adolescenza si configurano come gli anni della sperimentazione di sé, di un’incertezza di fondo, durante i quali non è sempre chiaro chi si è, che cosa si vuole, che cosa piace, in che cosa si crede e soprattutto quale sia la propria meta.

In questi anni di prove e sperimentazioni, si vive con incertezza la propria identità, cercando di comprendere quali sono i propri gusti, i propri credo, i propri obbiettivi. Le regole, i modelli, i valori che fino a quel tempo valevano, ora non valgono più. In questa fascia di età gli adolescenti comunicano quello che hanno dentro con modalità non comprensibili e accettabili agli occhi del genitore.

“ai miei tempi la musica era diversa, quelli si che erano anni importanti, abbassa il volume che non si capisce niente, ma che musica ascolti?”


La musica, forse più di tutte le altre forme di comunicazione, infatti, rappresenta la colonna sonora di un’epoca, il primo e il più importante linguaggio attraverso cui le nuove generazioni definiscono in prima battuta la propria appartenenza e la propria identità collettiva. Per questo, ogni nuova generazione per potersi individuare deve seguire un proprio percorso culturale, almeno un po’ differente da quello della generazione precedente. Grazie a questo linguaggio, fatto di parole, ma anche d’emozioni e d’affetti tradotti in suoni e in ritmo, i ragazzi celebrano la propria nascita sociale, vale a dire, la nascita dei propri valori e della propria cultura; di conseguenza la musica giovanile esprime la speranza delle nuove generazioni.

La musica, tuttavia, funziona anche come un farmaco e come un prezioso strumento al servizio della conoscenza di sé. Essa parla delle tante difficoltà che i giovani incontrano lungo la strada della propria nascita sociale ed esprime, quindi, anche dolore, rabbia, voglia di ribellarsi, disperazione e impotenza. Essa li aiuta ad uscire da quel senso di vuoto, di noia ed apatia che caratterizza l’adolescenza. Il segno culturale rende pensabili emozioni complesse, in altre parole, permette di conoscerle meglio e di contenerle. Esso consente di comunicare a se stessi e agli altri stati d’animo che altrimenti non sarebbero rappresentabili. I sentimenti d’inadeguatezza, mortificazione e angoscia che sono tipici dell’adolescenza, una volta trasformati in linguaggio musicale, acquistano un significato meno negativo poiché il soggetto può orientarsi meglio al loro interno e, se necessario, può prenderne le distanze.

Si, perché se è vero che l’adolescenza è l’età delle contraddizioni, sono tante le occasioni in cui i ragazzi ci raccontano di sè forse consapevoli che per evitare di accumulare dentro  insoddisfazioni e incomprensioni, si deve superare la paura e raccontare anche quel che non si comprende, se stessi. Al centro dei racconti di molti, c’è la contrastata relazione con i genitori e con gli adulti. Skair, in un suo pezzo rap dice la sua e chiede un dialogo e un confronto più attento: “Aiutami a crescere non insegnarmi che le cose che fanno girare il mondo sono soldi e aspetto. Io non ci credo, non è questo ciò che voglio. Non dirmi che non ho valori se ancora non mi hai nemmeno rivolto la parola. Se sono chiusa nel mio mondo è perché stai cercando di portarmi via l’essenza per l’effimero, abbiamo bisogno di evadere dai soliti schemi; ecco perché amiamo ascoltare musica, amiamo uscire di casa e non parliamo con i nostri familiari”.  

C’è poi chi ci racconta dell’eterno senso di inadeguatezza avvertito a questa età, con lo specchio, tra gli altri e con se stessi: “I bambini hanno paura dei mostri, io ho cominciato ad aver paura di me stessa. Tutto ciò che volevo era sentirmi speciale. Volevo solo essere amata. Mi sentivo fragile, credevo che gli altri non mi accettassero così com’ero, volevo essere diversa, perfetta. Mi sentivo protagonista di una vita che non mi apparteneva, intrappolata in un corpo che non mi corrispondeva. Odiavo me stessa e avrei preferito scomparire. In un certo senso ci ho provato. Avevo voglia di gridare al mondo la mia esistenza, credevo che facendo vedere agli altri che soffrivo finalmente qualcuno si sarebbe accorto di me. Mi crogiolavo nel dolore. Ma più soffrivo, più mi chiudevo in me stessa e gli altri si allontanavano da me. Per tutta l’infanzia ero stata protetta dal mondo esterno, ma il vero mostro contro cui dovevo combattere ero io.”

E se la musica non bastasse, ci pensa l’arte, in questo caso quella di strada. Si, perché i grandi quadri e dipinti ad olio che raccontavano dei giovani del passato, hanno lasciato spazio all’arte urbana. Ogni angolo della strada è tappezzato di colore, di disegni o di frasi scritte nero su bianco per attirare, senza dubbio, l’attenzione di qualcuno. Colori accesi e disegni troppo “importanti” per essere cancellati da una pennellata di pittura. E con questo aggiungiamo anche che sono i ragazzi a sprigionare la loro mente, la loro fantasia per creare qualcosa che abbia a che fare con i graffiti o con i murales.
E’ un’arte di strada, è un’arte diversa, è un’arte praticata da ragazzi troppo ribelli e troppo ingenui per essere giudicati. Non è atto di vandalismo o addirittura un atto che danneggia la città in cui essi si trovano. E’ semplicemente il modo di pensare degli adolescenti, il loro modo di vedere le cose e il loro approcciarsi al mondo. Rappresentano quello che è la loro fantasia, per dimostrare che ci sono e che contribuiscono per rendere il mondo un posto migliore

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