ARTE&CULTURA

Green Book: amicizia, conflitti raziali e disparità economico-sociali, nei film come nella vita vera

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Per parlare della giornata mondiale dell’amicizia non c’è cosa migliore di un film tratto da una vera storia di amicizia come “Green Book”.

I protagonisti della pellicola sono Viggo Mortensen, che interpreta Frank Anthony Vallelonga detto “Tony Lip” buttafuori italoamericano (1930-2013) e Mahershala Ali, che interpreta il compositore e pianista jazz Donald Walbridge Shirley (1927-2013). Come già detto, queste due persone, estremamente diverse, sono state amici nella realtà, quando per coincidenza a Tony viene offerta la possibilità di arrotondare i suoi guadagni facendo per un tempo limitato da autista personale e bodyguard a Donald.

Il film, del regista Peter Farrelly, ha trionfato agli Oscar 2019 vincendo tre riconoscimenti: miglior film, miglior attore non protagonista e migliore sceneggiatura originale. Ha ottenuto anche tre golden globe, un Bafta e numerosi altri riconoscimenti internazionali.

L’America dei primi anni Sessanta era ancora caratterizza da Stati che imponevano la segregazione raziale con leggi chiamate “Jim Crow”, che separavano gli afroamericani e gli appartenenti a gruppi razziali diversi dai bianchi nelle scuole, nei luoghi pubblici, sui mezzi di trasporto, nell’esercito, nei bagni e nei ristoranti. La segregazione raziale nelle scuole fu dichiarata incostituzionale nel 1954 ma le altre leggi rimasero in vigore fino al 1964. Parliamo di un tempo in cui la “n-word” era usata ed abusata, con l’intento di offendere e differenziare, oggi è considerata talmente razzista e retrograda da non meritare più di essere pronunciata in nessun contesto o situazione.

Per questo, quando al trio a cui Don Shirley faceva capo, venne proposto un tour musicale, l’idea di un uomo di colore che affrontava un viaggio del genere da solo era impensabile, da qui la necessità di un autista “bianco” che lo scortasse nel lungo viaggio tra i paesi del Midwest e del sud degli USA.

La «Negro Motorist Green Book» da cui è tratto il titolo del film, è stata una guida stradale, pubblicata per la prima volta nel 1936 da Victor Hugo Green, che elencava i luoghi come: hotel, ristoranti, stazioni di servizio, discoteche, negozi e saloni di bellezza; in cui i viaggiatori afroamericani potevano essere accolti senza problemi.

Don iniziò a suonare il piano a soli due anni, venne riconosciuto da tutti come un vero e proprio prodigio ma dovette abbandonare la musica classica, poco adatta ad un uomo di colore, per avvicinarsi (con successo) al mondo del jazz. Aveva avuto un’educazione raffinata ed era sempre stato a contatto con l’alta classe “bianca” americana, pur non potendo mai entrare veramente in rapporto con essa. Infatti, durante i suoi viaggi gli capitava di trovarsi a suonare presso teatri e salotti rinomati, ma non aveva accesso allo stesso bagno degli altri; non poteva dormire negli alberghi in cui soggiornava il resto della sua band (tutti bianchi) o cenare al loro stesso ristorante. Un trattamento assurdo con situazioni molto difficili da gestire. D’altra parte, non si riconosceva neanche nella comunità Afroamericana con cui praticamente non aveva rapporti e ad aggravare una situazione già difficile c’era anche il suo essere omosessuale. 

In questo contesto possiamo introdurre il concetto di “white savior complex” anche conosciuto come “complesso del Messia”, un disturbo visionario che lascia intendere alle persone, principalmente bianchi benestanti provenienti da realtà altamente industrializzate, di perseguire in terra uno scopo superiore prefissato da volontà divine, dei veri e proprio predestinati. Nel caso specifico ascoltare un pianista “nero”, apprezzarlo e permettergli di esibirsi su palchi importati, che in altre circostanze gli sarebbero stati preclusi, è per i ricchi borghesi dimostrazione pubblica della loro volontà di salvare quel pianista, ritenendo il loro aiuto come fondamentale, ancor prima di comprendere se in effetti lo fosse o meno. Sono individui guidati dall’egoismo e dalla parziale chiusura a fenomeni e culture diverse.

Il “complesso del salvatore bianco” crea danni non da poco, tanto a chi ne soffre quanto a chi lo subisce, oggi come ieri il “colonizzatore” non chiede il permesso, s’insinua, si autoproclama salvatore, in nome della religione, del benessere, del progresso, senza mai ammettere la propria posizione di vantaggio che viene però usata per alimentare il proprio ego. 

Donald Shirley avrebbe fatto letteralmente di tutto per sottrarsi all’immaginario del “bambino africano” quello povero, bisognoso di aiuti e cure, e per farlo si allontana dalla sua comunità di appartenenza, forza i suoi modi e le sue reazioni in pubblico, cerca di uniformarsi ai suoi “salvatori”.

Nel film questo trauma è ben presente e Don ne sente il peso, ne prende i benefici e ne subisce le conseguenze. Una frase molto esplicativa che troviamo nel film, e che rende bene l’idea di disagio e conflitto interiore provata dal pianista, è: “Se non sono abbastanza nero, né abbastanza bianco, né abbastanza uomo, allora che cosa sono?”

Ma è proprio qui, dove omofobia, ceca supponenza e odio razziale sembrano farla da padroni, che nasce la splendida amicizia tra due persone diametralmente opposte. Tony Lip, soprannominato così perché, a forza di parlare e raccontare cavolate otteneva sempre quello che voleva, è un uomo semplice e rude, grande lavoratore, facile nel venire alle mani e con un background culturale molto distante da quello di Don. Però durante il viaggio i due hanno modo di conoscersi. Don insegna a Tony come scrivere delle poesie d’amore per la moglie, mentre Tony dona a Don un luogo dove essere protetto ed amato ma più di tutto dove sentirsi accettato.

Questo è un film che racconta una bella e improbabile storia d’amicizia on the road, iniziata per caso ma durata una vita intera. Una storia del passato ancora molto attuale che non dice al pubblico cosa pensare ma invita a riflettere sulla banalità dei pregiudizi e delle prime impressioni.

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