Quando nel 1982 sono nate le emoticon, da un’idea dell’informatico statunitense Scott Fahlman, si faceva fronte all’esigenza di rendere veloce e intuitiva la comunicazione messaggistica tramite delle “icone emozionali”. I semplici punti e parentesi che caratterizzavano le emoticon nei primi messaggi, con il tempo (1999), si sono trasformate in emoji, vere e proprie immagini, espressioni degne dell’era digitale, nate grazie al programmatore giapponese Shigetaka Kurita che aveva preso spunto dagli ideogrammi orientali, dai manga e dai cartelli stradali. Emoji significa: “e” immagine, “mo” scrittura, “ji” carattere, in italiano potremmo tradurre con “pittogramma” e sono state realizzate con lo scopo di far risparmiare dei caratteri a chi scriveva i messaggi, ma anche per permettere ai giapponesi di superare le barriere di comunicazione e di educazione che paralizzavano le loro conversazioni (si sa che per un giapponese è quasi impossibile riuscire a dire di NO).

La storia è ricca di esempi di scrittura iconografica, possiamo benissimo considerare come “emoticon ante litteram” la scrittura rupestre, dove l’uomo rappresentava concetti in forma grafica tramite i pittogrammi che ritraevano in modo semplice e chiaro scene di vita quotidiana, animali, piante e numeri, questa forma di scrittura si è poi evoluta in quella sillabica. Ogni cultura ha adottato le sue forme di comunicazione come il Disco di Festo in Grecia, formato da 241 simboli, o la stele di Rosetta in Egitto, dalla decifrazione ancora incompiuta, ma anche i più famosi geroglifici o la scrittura cinese. Ognuna di queste forme è da considerarsi come vera e propria arte o linguaggio, e in quanto tali raggiungono l’obiettivo che si sono prefissati: comunicare con gli altri esseri umani nel modo più chiaro ed efficace possibile.

Riuscire a vedere forme ed oggetti riconoscibili nelle strutture amorfe che ci circondano, prende il nome di pareidolia. È una capacità innata, e sulla base di questo principio, tra l’altro, è nato il test di Rorschach nel quale l’osservatore deve comunicare quali immagini riconosce in dieci macchie di inchiostro simmetriche. La differenza tra la pareidolia e le emoticon sta nell’immediata e universale capacità che tutte le persone hanno di capirne il significato, senza possibilità di errori o fraintendimenti. Infatti, le emoji rimandano a un’immagine istantanea, sono veloci e rapide, indicano stupore o contentezza, manifestano un’emozione o uno stato d’animo, sono metasegni carichi di significato, sempre più presenti nella vita quotidiana degli individui; dalla semplice comunicazione con gli amici o i famigliari, alla comunicazione aziendale, fino ad arrivare a quella per scopi politici.
Nel 2015 la parola “Emoji” è stata eletta parola dell’anno dall’Oxford Dictionary, in particolare la più utilizzata risulta la “Face With Tears of Joy”, nota anche come LOL Emoji (faccina che piange lacrime di gioia); e nel 2017 i colorati disegnini sono entrati a far parte del MOMA di New York che ha deciso di esporre le prime 176 emoji. “Fin dall’inizio (1929), parte della missione del MoMA è stata quella di visualizzare e collezionare l’arte (e il design) del nostro tempo. Oggi, lo viviamo sia nello spazio fisico, sia in quello digitale”, ha commentato Paola Antonelli, curatrice del dipartimento del museo dedicato ad Architettura e Design.

Sono innumerevoli le emoji che, ogni giorno, viaggiano nella rete e vengono condivise tra chat, social network e app di messaggistica istantanea. Per esempio, Facebook ha stimato che dalla sua piattaforma nell’arco di una giornata vengono mandate in media 60 milioni di emoji (circa 5 miliardi su Messenger). Il successo deriva, oltre che dalla facilità di comprensione, dall’empatia che suscitano: le emoji hanno un volto. È per questo che, con un’emoji, diventa molto più facile comunicare, condividere e comprendere qualcuno quando si è dietro a uno schermo, abbattendo così le barriere linguistiche e geografiche, anche se uno studio di Swiftey ha messo in luce come nei diversi Paesi del mondo l’uso delle emoji vari in maniera sensibile. In alcuni gruppi sociali, infatti le emoji possono assumere significati diversi da quelli originari.

Oggi, c’è un’intera enciclopedia dedicata alle emoji, in cui vengono suddivise per categoria e tipologia (Emojipedia), è stato realizzato un film che le ritrae come protagoniste e sono oggetto dei più svariati gadget. Ci sono emoji inclusive, che simboleggiano la parità dei sessi, la lotta contro l’omofobia e l’amore per la diversità. Sono diventate anche simbolo di movimenti come Black Lives Matter grazie all’emoji “Raised Fist” e si sono evolute con gli eventi della storia, come per l’emoji “Face with Medical Mask” nata durante la pandemia.
Possiamo ammettere che c’è una specie di ritorno al passato grazie a questi “geroglifici moderni” che si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo perché più rapidi e diretti della comunicazione verbale. Un mezzo di comunicazione antico riadattato al presente. Con il passare del tempo hanno acquisito sempre più significato, diventando una parte importante del linguaggio, una sorta di codice universalmente riconosciuto per comunicare senza usare le parole. Oggi una emoji può essere considerata al pari di una parola e se questo è vero, significa che il linguaggio sta cambiando mentre le nostre giornate si riempiono di simboli e di disegni sempre più contestualizzati. C’è chi pensa che arricchiscano il linguaggio, rendendolo più vario, e c’è chi invece le attacca, perché crede che lo impoveriscano, ma una cosa è certa, le emoji diffondono concetti, ideali e valori, e continueranno a far parte della nostra quotidianità evolvendosi ed adattandosi.