ARTE&CULTURA

Se lo Stato che dovrebbe proteggerti diventa il tuo carnefice.

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La posizione del carnefice è estremamente invitante da sostenere, dato che tutto quel che chiede agli astanti è di non fare nulla, facendo leva sul desiderio universale di non vedere, non sentire, e non parlare del male. La vittima, al contrario, chiede all’astante di condividere il suo fardello o la sua sofferenza: pretende azione, impegno, memoria” Judith Lewis Herman. 

“Sulla mia pelle”, film di Alessio Cremonini del 2018, vincitore di 4 riconoscimenti ai David di Donatello (miglior attore, miglior regista esordiente, miglior produzione e David giovani) ripercorre gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, dall’arresto alla morte. Non è né un film di denuncia, né un reportage e nemmeno un documentario di inchiesta è un film privo di artifizi cinematografici, duro e crudo che non lancia accuse, non cerca colpevoli ma pone l’attenzione su uno Stato democratico che, nel XXI secolo, causa la morte una persona, inizialmente in buona salute, affidata alle sue cure. Un sistema di norme e regole pensato per tutelare l’individuo e rieducarlo, che si trasforma nel motivo della sua morte, decretando il fallimento dello stato di diritto. Così come gli atteggiamenti ostili, le inadempienze e le disattenzioni di militari, agenti di custodia, medici, infermieri, magistrati e legali costituiscono la ragione della morte molto più delle percosse subite dal ragazzo.

“Sulla mia pelle” racconta la storia di Stefano Cucchi, geometra romano di 31 anni, che venne arrestato per spaccio di stupefacenti e divenne un caso di cronaca nera per la morte avvenuta mentre si trovava in custodia cautelare nel carcere romano di Regina Coeli. Alessandro Borghi lo impersona calandosi perfettamente nel personaggio, nella sua psicologia e nella sua fisicità. Una figura esile dallo sguardo rassegnato, tipico di chi ha perso fiducia nel mondo e nelle istituzioni. Il regista ha scelto di non dipingere un eroe “non lo era e non voleva essere un esempio per nessuno”, ma un ragazzo vero con i suoi pregi e i suoi difetti, che amava la sua famiglia ma spacciava per sopravvivere. Così lo spettatore riesce ad entrare in empatica con questo giovane silenzioso, che non chiede mai aiuto e muore in solitudine.

Nel 2019, a dieci anni esatti dalla morte di Stefano Cucchi, la Corte d’Assise ha condannando due carabinieri per omicidio preterintenzionale, ritenendo così che il ragazzo fosse morto per le percosse subite all’interno della Caserma dei Carabinieri. La parola tortura non è stata pronunciata dai giudici nel dispositivo della sentenza solo perché, in quel lontano 2009, la tortura non era ancora considerata un reato. È stata per troppo tempo una parola impronunciabile. Infatti, l’articolo 613 bis del codice penale, che introduce il reato di tortura in Italia, è stato inserito solo a luglio del 2017, “punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Questa legge ha lo scopo di fornire supporto legale a persone che sono soggette a violenze o minacce mentre erano sotto custodia. È inoltre previsto un aumento di pena qualora i fatti siano commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri della sua funzione.

In Italia nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso (la legge non è retroattiva) solo per questo, nel caso Cucchi, ai carabinieri non è stato imputato il reato di tortura. 

L’inchiesta è stata lunga e difficile, con depistaggi e omertà, è servita pazienza e determinazione per andare avanti e affrontare, tra le altre cose, anche gli insulti e le minacce nate sui social. Questo rende ancora più importante la presa di posizione dell’allora Presidente del Consiglio che ha chiesto ufficialmente scusa ad Ilaria Cucchi (sorella di Stefano) a nome dello Stato. 

La verità storica che resterà agli atti è che Stefano non è morto perché malato, tossico o per essere scivolato dalle scale (come inizialmente i carabinieri volevano far credere): è morto poiché torturato. Con questa sentenza Stefano Cucchi ha riconquistato la pace e noi abbiamo recuperato un po’ di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni.

Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,  nella persona di Mauro Palma afferma “il fatto che alcune Procure della Repubblica abbiano avviato, negli ultimi tempi, delle indagini sul personale che opera in carcere (in particolare il personale di Polizia penitenziaria) contestando una violazione proprio dell’articolo 613-bis del c.p., porta immediatamente a sviluppare una prima riflessione: si dissolve la nube di presunta non volontà di indagare adeguatamente su certi episodi riportati anche sui media ”. 

Come ci ricorda Amnesty International, quest’anno sono stati condannati 10 agenti della polizia penitenziaria del carcere di San Gimignano per tortura e lesioni aggravate, “a dimostrazione che finalmente contro gli abusi di potere si può fare affidamento sulla legge e sui giudici”.

L’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, Antigone, ha recentemente pubblicato un e-book intitolato “La tortura nell’Italia di oggi” con un approccio di approfondimento giuridico/empirico con l’obbiettivo di fare luce sulle situazioni e i luoghi in cui il rischio di subire la tortura è più alto. “Nessun Paese è indenne dalla tortura” afferma il Presidente Patrizio Gonnella “per prevenirla chi governa deve essere costantemente vigile e creare una rete di prevenzione che coinvolga la formazione delle forze di Polizia”

La tortura è una pratica che appartiene solo ed esclusivamente all’uomo. Quando questa si insinua in uno Stato di diritto e soprattutto lo fa senza suscitare eccessivi clamori, vuol dire che la società si è adagiata su una passiva indifferenza e questo porterà tutti ad essere più crudeli ed inumani.

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