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Il diritto europeo contro la tortura e la politica migratoria dell’Ue: falle e criticità nell’esternalizzazione delle frontiere.

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Ogni anno, il 26 giugno, ricorre la Giornata internazionale delle Nazioni Unite a sostegno delle vittime di tortura, istituita dall’Assemblea generale ONU il 12 dicembre 1997 nel giorno del 50° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani con la risoluzione 52/149. L’art. 1 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (1987) definisce il reato di tortura e vieta tale pratica in qualsiasi circostanza. Eppure, ad oltre 30 anni dall’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite e in seguito alla ratificata da parte di quasi 160 paesi, secondo i dati del Fondo Onu per le vittime di tortura ogni anno sono più di 50 mila le vittime di questa pratica in ogni parte del mondo. Esplicative del panorama internazionale sono le parole di Riccardo Noury, portavoce in Italia di Amnesty International, secondo il quale “la tortura è universalmente vietata e quasi universalmente praticata”. Negli ultimi anni, la stessa Amnesty International ha denunciato casi, isolati e sistematici, di tortura e altri trattamenti inumani e degradanti in 141 paesi, fra cui Siria, Messico, Filippine, Egitto e Uzbekistan. Tuttavia, le notizie provenienti dai Balcani occidentali e i tragici avvenimenti nel Mediterraneo centrale, mostrano come anche gli sviluppati paesi dell’Ue non siano immuni dalla pratica della tortura, sovente tollerata nel contesto della lotta al terrorismo o della sicurezza dei confini nazionali.

Nell’Unione Europea, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950) all’art. 3 sancisce inderogabilmente il divieto di tortura e di qualsiasi trattamento disumano e degradante. Similmente, la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti, adottata dagli Stati del Consiglio d’Europa a Strasburgo nel 1987 e ratificata da tutti gli Stati membri, costituisce un altro trattato fondamentale per la tutela delle vittime di tortura sul suolo europeo. In aggiunta, l’Ue condanna esplicitamente la tortura nell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, la cui formulazione è speculare a quella dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; a  garanzia di un efficace funzionamento di tali norme, l’Ue ha istituito un Comitato ad hoc con il compito di monitorare il corretto operato degli Stati membri.

È necessario sottolineare che l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non prevedere deroghe o eccezioni e che la sua applicazione è extraterritoriale, tutelando così l’individuo dalla possibilità di essere estradato, espulso o allontanato in un territorio in cui rischierebbe di subire un trattamento contrario all’articolo. L’applicazione extraterritoriale della norma è stata consolidata dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Chahal c. Regno Unito (1996), durante la quale à stata ribadita l’impossibilità di estradare un individuo verso un paese a rischio tortura anche in caso di minaccia terroristica o preoccupazioni per la sicurezza nazionale. Sempre in ambito di applicazione extraterritoriale della norma, il Regolamento europeo anti-tortura, adottato dalla Commissione europea e dal Consiglio il 16 gennaio 2019, disciplina gli scambi con Paesi terzi di strumenti che potrebbero essere utilizzati per la tortura, indicando le destinazioni verso cui l’esportazione è ammessa. Infine, a partire dagli anni ’90 la Corte di Strasburgo ha adottato un’interpretazione ancora più estensiva dell’art. 3 della Convenzione, estendendo nella sentenza Tomasi c. Francia (1992) la tutela dell’individuo anche all’aspetto psicologico e annoverando tra i casi di tortura tutte quelle condotte che, pur non avendo provocato lesioni personali a lungo termine, ledono gravemente la psiche dell’individuo.

LA SITUAZIONE SUL SUOLO EUROPEO 

È dunque evidente come, formalmente, la normativa Ue contro la tortura sia chiara, estesa e non limitata ai confini europei. Eppure, a partire dal 2017 numerose ONG, tra cui Human Rights Watch, Are You Syrious?, Amnesty International e il Border Violence Monitoring Network hanno documentato respingimenti illegali e sistematici, nonché violenze fisiche e psicologiche compiute dalla polizia lungo le frontiere di Croazia e Ungheria con la Serbia e la Bosnia. In un rapporto sui respingimenti violenti avvenuti lungo il confine croato nel corso del 2019, il Border Violence Monitoring Network ha evidenziato come in più dell’80% dei casi documentati si fosse verificato un chiaro ed intenzionale caso di tortura o trattamento crudele, inumano e degradante da parte delle autorità croate, spaziando dalla violenza fisica, alla violenza psicologica e alla brutalità durante la detenzione o il trasporto. Non dissimile è la realtà nel Mediterraneo centrale, dove un’indagine condotta nel 2020 dal Centre Suisse pour la Défense des Droits des Migrants (CSDM) ha calcolato che dall’inizio del Memorandum d’intesa fra Italia e Libia nel 2017 più di 50.000 persone, fra rifugiati e migranti, sono stati ricondotti in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli ed esposti così al rischio di tortura, stupro e riduzione in schiavitù.

Sia nel caso libico che sul fronte balcanico, la responsabilità ricade non solo sui singoli Stati membri, ma anche sull’Ue in quanto, su un piano operativo, sia la Guardia costiera libica che la polizia di frontiera croata operano grazie al supporto logistico e materiale fornito dagli Stati membri attraverso i programmi dell’Ue. A fronte dei limiti del sistema di Dublino e in vista di un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo tra gli Stati membri, riconoscere il fallimento dell’esternalizzazione della politica migratoria dell’Ue dovrebbe essere dunque il primo passo per una riforma del sistema che sia in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Rafforzare e riconfermare la cooperazione con paesi terzi a fronte di una documentata situazione di estesa e sistematica tortura non dovrebbe essere una via percorribile. 

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