ARTE&CULTURA

Dalla Siria all’Inghilterra: racconto di un lungo viaggio in cerca di una nuova vita.

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Lo status di rifugiato è definito dall’articolo 1A della Convenzione di Ginevra del 1951. È colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

“L’apicultore di Aleppo”, libro scritto nel 2019 da Christy Lefteri, pur essendo un libro di fantasia risulta alla lettura reale e straziante, rappresenta in modo chiaro ciò che succede ogni giorno alle centinaia di persone che cariche di speranza cercano di raggiungere dei luoghi più accoglienti e vivibili rispetto ai loro paesi d’origine.

Il tema degli immigranti è presente ogni giorno nelle nostre vite, lo troviamo nei giornali, in tv e salta di bocca in bocca nelle conversazioni. È diventato, purtroppo, un tasto dolente per ogni Nazione, per ignoranza e per l’innaturale sfiducia verso il diverso.

Come si evince dal titolo, il libro è ambientato in Siria, dove Nuri, apicultore, vive con la moglie Afra, pittrice, e il figlio Sami. Aleppo viene rappresentata come una terra amabile, ricca di opportunità dove poter crescere con tranquillità una famiglia e Nuri ne vede tutti i lati positivi mentre alleva con passione le sue piccole api. Ma la guerra cambia tutto.   Sconvolge l’intero paese facendolo cadere in pezzi, trasformandolo in un inferno e sconvolgendo la famiglia di Nuri con l’uccisione, durante un bombardamento, del piccolo Sami. Questo evento, che porterà alla cecità Afra, farà prendere a Nuri la dura decisione di abbandonare la Siria e tentare il tutto per tutto in un viaggio difficile e dall’esito incerto verso l’Inghilterra.

Secondo Intersos il numero dei rifugiati siriani supera le 6,8 milioni di persone. È il numero più alto di rifugiati dalla Seconda Guerra Mondiale e a questi si sommano oltre 6 milioni di sfollati interni. Vite interrotte, costrette a ritrovare una loro dimensione in contesti molto diversi rispetto alle proprie radici e il più delle volete ostili.

Il libro di Christy Lefteri parla di guerra ma anche e soprattutto delle macerie che questa si lascia dietro, parla di esilio dalla propria casa e dalla propria identità, parla del pregiudizio e della paura nei confronti del “diverso” perchè straniero, ma soprattutto parla di coraggio, quello necessario per affrontare i dolori del viaggio e della perdita. È la storia di tutte quelle persone che si portano dietro i traumi e le cicatrici della guerra. Se l’autrice riesce a raccontare in modo così vivido questi avvenimenti è perché li conosce molto bene, è figlia di rifugiati greco-ciprioti emigrati nel Regno Unito dopo l’invasione turca e ha lavorato come volontaria in un campo rifugiati dell’Unicef ad Atene.

Il Viaggio di Nuri e Afra passa dalla Turchia e dalla Grecia e trasforma i protagonisti in una delle molte migliaia di sfollati in cerca di asilo o di un posto per poter ricominciare a “sopravvivere”. Il libro racconta molto chiaramente i pericoli e gli ostacoli che gli immigrati e i rifugiati sono costretti a fronteggiare ogni giorno, la paura che si prova nell’affrontare il mare di notte su un piccolo gommone, l’incertezza che si ha nell’affidarsi ad altri disperati per avanzare nella traversata, le complicazioni dettate della burocrazia e le difficoltà che si hanno nel rapportarsi con una lingua che spesso non si capisce, il sentimento di isolamento. Un romanzo che mette chi legge difronte a scene conosciute ma spesso volutamente ignorate, perché si ha la fortuna di essere nati in un paese sicuro.

Tutti coloro che si lamentano e additano gli immigrati dovrebbero leggere questo libro, perchè apre gli occhi su una situazione che non può più essere ignorata e che troppo spesso viene tratta nel modo sbagliato, con la sufficienza e l’arroganza di chi non ha conosciuto la guerra.

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