Oggi più di 4.5 miliardi di persone al mondo hanno accesso ad Internet.
Pensare alla mole di informazioni che portiamo ogni giorno in tasca suscita un senso di incredulità. Basta un clic per soddisfare qualsiasi curiosità o dubbio, o semplicemente per vedere dove si trova il ristorante più vicino. Tutti questi clic hanno un comune denominatore: generano soldi.
In questa settimana dedicata alla Libertà di Stampa abbiamo deciso di parlarvi dell’impatto del business del clickbait e delle fake news su un’informazione affidabile e verificata.
In un’intervista del Washington Post nel 2016 Paul Horner, noto autore americano di fake news, dichiarava di ottenere profitti intorno ai 10.000 dollari al mese promulgando disinformazione su Facebook, raggiungendo anche picchi di 10.000 al giorno per le notizie più virali. Una simile tendenza è stata riportata nello stesso anno da Buzzfeed in riferimento a un gruppo di giovani macedoni che avevano messo su almeno 140 siti di fake news nella cittadina di Veles (45mila abitanti), tanto influenti da pensare che abbiano avuto un ruolo nelle elezioni americane.

Per approfondire, video-intervista di NBCNews al giovane “imprenditore” Dimitri: Fake News: How a Partying Macedonian Teen Earns Thousands Publishing Lies
Oggi chiunque può creare il proprio sito web monetizzato; infatti siamo di fronte ad un nuovo business model che rende possibile, in una remota cittadina dell’ex-Jugoslavia, guadagnare l’equivalente di 10 anni di salario medio in pochi mesi. Il funzionamento di un sito web monetizzato è semplice: basta creare un sito, lanciarlo e valutare le offerte dei vari inserzionisti per gli spazi pubblicitari (quello che oggi definiamo in tre lettere come ads). Naturalmente, maggiori sono le visualizzazioni e condivisioni della notizia, maggiore è l’offerta degli inserzionisti. Diventa dunque conveniente attrarre più click possibili con titoloni sensazionalistici e, appunto, notizie false: il profitto prevale sulla responsabilità dell’informatore. Da qui il termine clickbait, alla lettera “esca da clic”, titoli tipo “Ultima Notizia! I Messaggi Segreti Di Hillary Clinton Per Sabotare Trump!”.
L’esempio dell’ex Mr. President non è casuale: quei giovani macedoni avevano capito quanto il clic di un utente Facebook americano valesse più di altri utenti Facebook nel mondo, sarà per il maggior engagement con i social network, per la propensione al consumo e la maggiore rendita del settore pubblicitario. Quello che l’indagine di Buzzfeed precisa è che a questi giovani non importava di elezioni e politica americane in sé, ma il fatto che il supporter medio di Trump rappresentasse il maggior numero di visualizzazioni catalizzava il contenuto dei post per incrementare il profitto. Secondo alcune dichiarazioni, questi adolescenti non facevano altro che “dare alle persone ciò che volevano leggere: la responsabilità di indagare e non credere a certe bufale spetta al lettore”. A questo punto anche Paul Horner, creatore di un altro impero di fake news, dichiarò di temere di avere una responsabilità nell’arrivo di Trump alla Casa Bianca.
Eppure, facendo bene i conti, questo business non è poi così redditizio rispetto alle sue conseguenze! Si parla di stime che vanno da circa 0.70 centesimi a 2.80 dollari ogni 1000 visualizzazioni, che possono cumularsi in una rendita eccezionale per un teenager balcanico (in Macedonia la disoccupazione giovanile è al 25% e il salario annuo medio inferiore a 5000 dollari), ma che portano a effetti ben più ampi: disinformazione, condizionamento dell’opinione pubblica, veicolazione del supporto politico, pericoli per la salute globale.
A livello più ampio, il Global Disinformation Index ha fatto presente come in Unione Europea grandi tech companies giochino un ruolo centrale nel finanziare pagine di disinformazione sul Coronavirus attraverso gli advertisements. Compagnie come AdForm, Amazon, Google, AdRoll, Taboola e altre contribuiscono al caos a cui stiamo assistendo quotidianamente: questione vaccini, teorie del complotto, speculazioni senza minime basi scientifiche (e spesso neanche logiche). Tra queste, Google è il maggior contribuente, finanziando circa l’86% di siti di disinformazione. Non c’è qui una definita volontà di supportare questo tipo di informazione: spesso, finanziando queste pagine, le compagnie vanno addirittura contro i propri regolamenti, ma esercitare un controllo su questi contenuti è estremamente difficile, dato che è facilissimo creare siti monetizzati e chiunque può farlo. In Unione Europea il valore annuo di questo business è stimato intorno a 76 milioni di dollari americani.
Così, dunque, un potentissimo strumento di divulgazione come il social media mostra l’altra faccia della medaglia, quella condizionata dalla possibilità di guadagno e dalla noncuranza delle conseguenze. Che ne è dell’informazione affidabile e della responsabilità che un divulgatore ha nei confronti dell’opinione pubblica?
“E che ne è delle priorità editoriali?” si chiede un gruppo di giornalisti del Daily Telegraph, noto quotidiano britannico, dopo che sarebbe trapelata la proposta di un esperimento volto a correlare il numero di visualizzazioni degli articoli della testata con lo stipendio dei giornalisti. Seppur trattandosi solamente di una vaga proposta e di nulla in concreto, il fatto ha suscitato molte critiche da parte dei giornalisti, e ha fatto emergere la discussione sull’importanza dell’informazione di qualità e l’ambiguità di una valutazione non qualitativa, ma quantitativo-algoritmica.
Il fulcro della questione è l’impatto del business side sulle priorità editoriali e sulla veridicità dell’informazione, perché paradossalmente una pagina disinformativa arriva ad attirare più del giornalismo di qualità: quello noioso che cita dati, fonti, prove scientifiche, non lasciando spazio a dubbi scandali e titoloni sensazionalistici.
Quando cerchiamo una notizia online oppure mentre scrolliamo la home di Facebook, ricordiamo che i nostri clic fanno la differenza: scegliamo fonti autorevoli, ignoriamo i clickbait e sfatiamo, quando infondate e falsate, le convinzioni dei nostri familiari e amici. È su questo campo che noi lettori giochiamo un ruolo centrale per difendere e diffondere il nostro diritto all’informazione.