GEOPOLITICA

America Latina: tra libertà di stampa e colonialismo culturale

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La libertà di stampa in America Latina è tutt’oggi una questione centrale, un campo del perimetro democratico su cui molti passi andranno ancora percorsi. 

Il processo di democratizzazione degli stati latinoamericani, con le ovvie sfumature territoriali, consiste in un complesso cammino di emancipazione dalla propria storia moderna e contemporanea che, dalla scoperta europea del Continente, ha visto susseguirsi feroci colonizzazioni, rivoluzioni, efferate dittature eterodirette e, a partire dagli anni ’80 del XX secolo, democrazie neoliberali fortemente influenzate dagli interessi delle grandi corporazioni e degli stati occidentali e minate da una corruzione endemica.

All’interno di questa sfaccettata realtà, i mezzi di comunicazione si caratterizzano come monopolisti e polarizzati, legati alle élite conservatrici creole, che nel recente passato appoggiarono le dittature e ai potentati economici dell’agroindustria e dell’estrattivismo. Il paradigma è quello analizzato da Noam Chomsky e Edward S. Herman nel celebre saggio “La fabbrica del consenso”: l’utilizzo strumentale dell’informazione per indurre l’opinione pubblica a sostenere gli “interessi particolari” che ricadono su una determinata area.

Vittime degli interessi di parte sono stati diversi governi progressisti che in questo scorcio di XXI secolo hanno interrotto il dominio neoliberale e tentato di affrancare la politica dalla morsa delle élite e di far fronte alla povertà e alle diseguaglianze sociali dilaganti; processo culminato nel 2005 con il rifiuto dei principali paesi del Continente di istituire l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) proposta George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti.

La risposta dei potentati, passata l’era dei golpe militari, è stata l’adozione di una strategia più sottile che vede i media impegnati in prima linea. Quella del lowfare, la guerra giuridica che consiste nella delegittimazione continua dei governanti perpetrata attraverso i grandi gruppi editoriali (per citarne alcuni: Mercurio, Clarín, ma anche lo spagnolo El País) fino alla persuasione dell’opinione pubblica della colpevolezza del soggetto, anche in assenza di prove. A ciò segue l’incriminazione e la condanna giudiziaria o la destituzione a opera del Parlamento.

Vittime di tali colpi di stato “morbidi” negli ultimi 20 anni sono stati i Presidenti progressisti Hugo Chávez (Venezuela), Evo Morales (Bolivia), Manuel Zelaya (Honduras), Rafael Correa (Ecuador), Fernando Lugo (Paraguay), Dilma Rousseff (Brasile); a questi vanno aggiunti l’ex Presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva e il tentativo fallito nei confronti di Cristina Fernández, ex Presidente dell’Argentina.

Evo Morales, ex sindacalista dei cocaleros, primo Presidente indio della Bolivia, vincitore di tre tornate elettorali dal 2006 al 2019, è di fatto già un personaggio storico del Paese. La Bolivia è uno dei paesi più poveri del mondo ma tra i più ricchi di risorse, in particolare il litio. Il partito cui appartiene Morales, il MAS (Movimiento al Socialismo), nacque come contenitore delle organizzazioni sociali di contadini, rappresentante della popolazione maggioritaria: indigena (Quechua e Aymara), storicamente povera e marginalizzata, dislocata nella zona occidentale dello Stato, rispetto all’oriente rappresentato dalla minoranza bianca dove risiedono gli interessi agro-industriali. Nel corso del primo mandato, il Presidente Morales diede una svolta alla politica economica e sociale boliviana, in particolare nazionalizzando del tutto o in parte importanti imprese, tra cui quelle dei settori estrattivi (petrolio, gas, minerali), riscrivendo la Costituzione in senso inclusivo e riconoscendo l’origine plurinazionale dello Stato e dando voce alle popolazioni indigene. Gli effetti di tali riforme sono riscontrabili nella crescita dell’economia, nel calo di povertà e disuguaglianze e nelle conquiste sociali.

I cambiamenti disposti, andando ad intaccare interessi nazionali e internazionali consolidati in diversi comparti, diedero seguito a violenze e omicidi perpetrati da gruppi paramilitari e a una lunga campagna di delegittimazione nei confronti del Presidente, comprensiva di allusioni razziste, dentro e fuori il Paese. A culmine di questo processo, nel corso dello spoglio delle elezioni presidenziali del 2019, con Morales in vantaggio di oltre 10 punti, l’OEA (Organizzazione degli Stati Americani, da sempre vicina agli Stati Uniti) denunciò brogli nei conteggi dando seguito a contestazioni sfociate nell’auto-esilio del Presidente uscente e a un colpo di Stato, diverse decine di vittime e la presa del potere dei conservatori con l’auto-proclamata presidente Jeanine Áñez. Il governo golpista, tra gli altri provvedimenti liberticidi, dispose la chiusura delle emittenti TV Telesur e RT e di decine di radio comunitarie indigene.

Pochi mesi dopo, il Washington Post e lo stesso NYT, rilanciando uno studio del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston e un altro condotto dai professori Francisco Rodríguez, della Tulane University, e Dorothy Kronick, dell’Università della Pennsylvania, decretarono che non ci furono brogli, smentendo le ricostruzioni apparse in precedenza. Questi due articoli, insieme alla vittoria di Luis Arce, successore di Morales alle elezioni del 2020 con il 55% contro il 31% e il conseguente ritorno in patria dell’ex Presidente, eventi che ristabilirono la democrazia, non trovarono particolare eco nei media occidentali.

In Brasile, l’ex Presidente Lula, candidato e favorito alle elezioni del 2018 si consegnò alle autorità a seguito di una condanna a 12 anni per corruzione e riciclaggio. Già nel 2016 un lungo processo mediatico al suo partito, il Partito dei Lavoratori (PT), era scaturito nella destituzione della presidente Dilma Rousseff e nella presa del potere del conservatore Michel Temer. Beneficiando dell’attenzione mediatica del processo, Sergio Moro, il giudice responsabile della condanna inflitta a Lula, entrò in politica e fu nominato dal neo-Presidente Bolsonaro Ministro della giustizia e della sicurezza. La figura di Moro ebbe vasto risalto sui media italiani dopo che questo, in occasione dell’investitura a Ministro, dichiarò di ispirarsi ai magistrati Falcone e Borsellino.

Dopo 580 giorni di carcere la detenzione di Lula venne sospesa in attesa della sentenza definitiva; sentenza che nel marzo 2021 lo ha visto prosciolto da ogni accusa dal Tribunale Supremo Federale del Brasile. 

Proprio l’ingiusta condanna di Lula favorì la vittoria alle presidenziali del 2018 del candidato dell’ultradestra Jair Bolsonaro, con un’affermazione netta e inaspettata nelle proporzioni; molti osservatori affermano che il successo di Bolsonaro fu dovuto al sostegno delle Chiese evangeliche e al ricorso a una valanga di fake news diffuse attraverso i social network con una strategia ben studiata.

Da sottolineare che il sostegno degli evangelici, la cui diffusione in America-Latina inizia a insidiare il primato della Chiesa cattolica, si manifestò in particolare nell’appoggio del vescovo Edir Macedo, capo della Chiesa universale del regno di Dio, proprietario di Rede Record, quarto gruppo editoriale del Brasile, e del terzo canale televisivo più seguito, Record TV. Macedo controlla anche il partito Repubblicano che ha nelle sue fila i figli di Bolsonaro Carlos e Flavio.

Nel corso del suo mandato, il Presidente brasiliano è finito più volte sotto la lente d’ingrandimento dei giornalisti per molteplici vicende controverse, in particolar modo per le fake news circolate in campagna elettorale, i vasti incendi in Amazzonia e la gestione della pandemia da Covid-19. A queste Bolsonaro ha replicato con durissimi attacchi alla stampa e ai singoli giornalisti tesi a delegittimare 

gli organi d’informazione e le persone in questione, spesso sfociando nel sessismo e nell’omofobia.

Tali aspre critiche, rilanciate attraverso i social dai suoi collaboratori, hanno innescato un clima di odio in tutto il Paese con il risultato di un aumento del 167% degli attacchi alla stampa registrati nel 2020 rispetto all’anno precedente.

Esemplare il caso della giornalista Patricia Campos Mello, autrice di un’inchiesta dall’ampia risonanza mediatica, sui presunti illeciti nel massiccio ricorso alle fake news nella campagna elettorale del 2018. Il Presidente Bolsonaro reagì rilasciando pesantissime dichiarazioni di stampo sessista rivolte alla giornalista, la quale divenne oggetto di una pesante campagna diffamatoria diffusa attraverso i social network e i media vicini al presidente. A seguito di una causa intentata dalla giornalista, nel marzo 2021 Bolsonaro è stato condannato per danni morali e conseguente risarcimento nei confronti della donna.

Agli ostacoli alla libertà di stampa fin qui tracciati, si aggiunge il tema degli omicidi che vede alcuni Stati latinoamericani ai vertici della lista redatta annualmente da “Reporter Senza Frontiere”. Tra i 50 giornalisti assassinati nel mondo nel 2020, 8 sono stati uccisi in Messico (più che in ogni altro Paese), 3 in Honduras, 2 in Colombia, 1 un Paraguay, 1 in Venezuela. Oltre 250 tra cronisti, blogger e altre persone impegnate nella comunicazione hanno perso la vita in Messico, Colombia, Brasile e Honduras dal 2000 ai giorni nostri.

Il Messico e la Colombia sono due potenze regionali, i Paesi più popolosi dopo il Brasile, ma anche tra i più violenti. Sono paesi storicamente filo-statunitensi e per questo ricoprono poco spazio sui media occidentali ma da molti anni vivono una condizione drammatica. La corruzione dilagante, le imperanti associazioni criminali, i gruppi paramilitari, il disagio sociale hanno creato un clima di conflitto permanente tra le molteplici forze in campo. 

In questo scenario, il lavoro dei giornalisti è ostacolato dai soggetti operanti sul territorio che controllano l’informazione attraverso le pressioni, le minacce, la violenza efferata.

L’ultimo omicidio di un giornalista nel Paese centroamericano è stato quello di Julio Valdivia, il cui corpo decapitato e con segni di violenze è stato rinvenuto il 9 settembre del 2020 nel municipio di Tezonapa.

I 35.484 omicidi nel 2020 e gli oltre 300.000 dal 2006 ad oggi fanno sì che in Messico si possa parlare di vera e propria guerra civile. Il conflitto permea ormai ogni settore, non solo quello della droga. In tale scenario, secondo i dati del Committee to Protect Journalists (CPJ) il Messico è uno dei Paesi con il più alto indice di impunità al mondo per l’omicidio di giornalisti. Il 99,1% secondo la Fiscalía especial de atención a delitos cometidos contra la libertad de expresión (FEADLE). 

Stiamo parlando di un Paese civilmente sviluppato, industrializzato, membro del G20 e dell’OCSE, ricco di storia e cultura in cui da 15 anni imperversa una guerra civile sanguinaria; Paese che, però, sembra non destare l’attenzione dei media occidentali.

Simile a quella del Messico è la situazione della Colombia, squassata dal narcotraffico, da decenni di guerra alle FARC (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), dal paramilitarismo. La Colombia è pressoché assente dalle cronache occidentali, eccezion fatta per il caso di Íngrid Betancourt, politica colombiana sotto sequestro delle FARC dal 2002 al 2008, che fu seguito assiduamente dai media occidentali soprattutto per via delle origini borghesi della donna e per aver vissuto parte della sua vita in Francia.

Non ha destato scalpore l’arresto ad agosto 2020 di Alvaro Uribe, ex Presidente conservatore, protagonista per 20 anni della politica nazionale e mentore dell’attuale Presidente Ivan Duque; il politico di lungo corso è sospettato di frode e corruzione in un processo penale sui crimini della guerra civile.

Uribe è al centro dello scandalo dei “falsi positivi”. Per falsi positivi si intendono persone inermi, fermate dall’esercito in strada, con un criterio praticamente casuale, incriminate con prove false, assassinate e spacciate per guerriglieri delle FARC. Si tratta di 6402 cittadini uccisi per incassare i compensi che gli Stati Uniti elargivano alla Colombia un tanto per ogni membro delle FARC eliminato in base agli accorsi del cosiddetto “Plan Colombia”.

Lascia invece adito a sospetti la totale noncuranza dei media italiani per l’omicidio di Mario Paciolla, l’osservatore italiano ucciso in Colombia nel luglio 2020, per il quale si segue anche la pista interna alle Nazioni Unite. 

La mancanza di copertura delle vicende estere da parte della stampa italiana per via dell’atavica assenza di corrispondenti porta solitamente i media nostrani a ricavare le notizie dagli organi anglosassoni e, riguardo l’America Latina, anche da quelli spagnoli. 

Nel caso Paciolla siamo però di fronte a un silenzio voluto, ben raffigurato dal corrispondente Ansa da Buenos Aires Maurizio Salvi: “i governi si sono messi d’accordo per impedire ai media di accedere alla documentazione sulla morte di Mario. L’ho provato sulla mia pelle. Silenzio dell’Onu, silenzio della Procura, silenzio dell’Ambasciata e quindi silenzio indotto dei media italiani e colombiani”.

Se da un lato l’America Latina dovrà percorrere altri passi per rafforzare la libertà di stampa e di conseguenza la democrazia nei propri Stati, dall’altro sarà importante liberare la stampa estera da partigianerie e residui di colonialismo economico e culturale.

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